II

I nuovi canti

Le seguenti analisi sono state fatte allo scopo di mostrare la nuova forma leopardiana nelle sue piú concrete e pure realizzazioni. Serviranno a mettere in chiaro i caratteri della nuova poesia e a mostrare come non si tratti di decadenza, di inaridimento poetico, ma di un nuovo tipo di arte vigorosa, non armonica, in cui gli squilibri, le apparenti opacità e durezze sono giustificate quando si riportino all’accento che anima questi canti. Non è che il Leopardi si sia infiacchito, isterilito poeticamente, ma piuttosto che egli si volge coscientemente ad una nuova forma, in cui si esprime con maggiore vigoria e intensità spirituale e con non minore senso artistico. Tutte le osservazioni fatte nelle analisi ci ricondurranno sempre all’accento fondamentale della nuova poesia: un accento personale, vigoroso, centro vitale di un linguaggio pure personale e che si può facilmente distinguere da quello piú blando e piú armonico dei grandi idilli.

Il pensiero dominante

La nuova forma, tutta intima al nuovo senso di personalità e di ampiezza spirituale del Leopardi, anzi espressione genuina della sua nuova personalità, si concreta per la prima volta nel Pensiero dominante, composto all’incirca verso l’ottobre 1831, dopo un intervallo di silenzio, occupato dal primo sviluppo di questa nuova personalità cosí impaziente e tesa all’affermazione piú energica ed universale di se stessa.

In questo nuovo clima spirituale, la fortissima esigenza dell’amore ha calato nella realtà i suoi ideali di bellezza, trasfigurati e invigoriti da tutta la sua nuova, intima forza, ha creato la donna da amare, la cui presenza reale accresce il carattere tragico, passionale (tanto lontano dalla freschezza virginale delle figure di Silvia e Nerina) di quest’amore. Una maturità virile, piena e consapevole di sé caratterizza il nuovo Leopardi in questo suo atteggiamento amoroso, di cui si deve sempre accentuare la natura interiore, profonda, non frivola, non occasionale.

Il Pensiero dominante ne è l’espressione piú consistente e totale, perché Amore e morte rappresenta già lo sviluppo di un altro momento, Consalvo è uno sfogo, un vagheggiamento torbido, quasi un abbandono di fiacchezza morale, A se stesso ed Aspasia sono già la fine dell’amore. Perciò la poesia in esame ha un calore straordinario, una tensione mantenuta sino alla fine, che permettono la continuità di stato adorativo, cui nulla possono togliere l’astrattezza del pensiero d’amore e il cambiamento di soggetto da pensiero d’amore a donna amata. L’ispirazione è continua e la nuova personalità si esprime col massimo soggettivismo e con la massima universalità: coesistenza che è il superamento di ogni egoismo (parlo anche di egoismo estetico cioè di autobiografismo aneddotico) e di ogni vaga generalità, e rappresenta un vigore d’eternità proprio delle espressioni piú intime e piú profonde.

La forza di questa poesia, che è poi la forza di tutte le poesie di quest’ultimo periodo, quando siano puri momenti di sincerità poetica, sta proprio in questa affermazione tenace del se stesso piú profondo, che porta ad un qualcosa di simile all’atteggiamento dantesco nel Paradiso, a intensità espressive simili, ad esempio, allo slancio del trentunesimo del Paradiso: «io che al divino dall’umano...».

Sono affermazioni soggettive, di valore universale, contrasti di mondi e di convinzioni, che si mantengono con la stessa intensità durante tutto questo periodo e che si presentano persino nei momenti di piú assorta adorazione. Nel Pensiero dominante l’assolutezza di questa forma personale è conquistata immediatamente, subito all’inizio, che mostra il carattere di esplosione subitanea, di energia tutta intima dei nuovi canti e sembra quasi presupporre un lavorio di preparazione interna, dolorosa che culmini in questa espressione assoluta:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

In questi versi è una novità di concentrazione potente che predomina in tutto il canto e lo distingue, ad esempio dalla Ginestra che rappresenta il polo estremo di tutto il periodo: eppure l’anima di questa nuova poesia, la ragione intima di questa forma è la stessa, tanto nel Pensiero dominante, che nella Ginestra e non ci devono ingannare contrasti vistosi come questo sopraccennato fra la concentrazione del primo e la lunghezza slanciata della seconda. Si tratta sempre di una personalità che si esprime vigorosamente, di una forma che sfugge il cantato, l’idillio; e, del resto, nello stesso Pensiero dominante la massima concentrazione fa tutt’uno con la frase melodica piú lunga e snodata sí che non vi sentiamo che un’unica forma fusa e compatta.

Questa forma ha una sua sintassi che elimina spesso il verbo dove non ci debba essere, come nella strofa iniziale se non un puro vocativo, una pura posizione di parole tra cui non corre che un legame profondissimo, interiore.

Il vocativo di questi primi versi è tanto piú potente in quanto che è trattenuto da qualsiasi enfasi, da qualsiasi esclamativo: la forza si esprime con la ripetizione del contrasto fra le due qualità del pensiero d’amore: «dolcissimo, possente»; «terribile, ma caro», e si snoda attraverso un accenno rapidissimo a tutto un continuo stato d’animo doloroso e cupo («lugubri miei giorni») nell’endecasillabo finale che non si adagia in una struttura molle, ma anzi si sostiene in una scandita posizione giambica. Anche la musicalità propria delle parole è asservita e sfruttata per esprimere la tensione commossa dell’adorazione (dolcissimo-possente) e l’aggettivazione è sempre piú vigorosa e assoluta non per ricercatezze difficili, ma proprio per la profondità da cui rampolla: «lugubri», «prepotente signore», «alme ingenerose», «profonda mente» (che esprime l’essenziale qualità di questo entusiasmo amoroso non superficiale, non spiritualmente momentaneo, ma fuori del tempo perché proprio nella parte piú intima, meno contingente del poeta).

Queste qualità cosí poco retoriche, cosí liriche, adescrittive dell’inizio seguitano per tutto il canto, in cui si svolge, quasi una teofania, la duplice essenza del pensiero d’amore: «dolcissimo, possente»; «dono del ciel, gigante». Unicità del soggetto, preso e ripreso sotto i due aspetti accennati e sceverato da ogni condizione men che universale e profonda, che dà appunto l’estrema liricità di tutto il canto, nel quale il poeta rifugge da ogni determinazione spaziale e temporale che limiti in qualsiasi modo l’universalità della sua esperienza e della sua adorazione. Anche il contrasto fra la vita passata e la presente è fatto tutto senza parità, con preponderanza della seconda, sentita come vero momento spirituale e perciò eterno della propria personalità:

Giammai d’allor che in pria

questa vita che sia per prova intesi,

timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco

[…]

Sempre i codardi, e l’alme

ingenerose abbiette

ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

subito i sensi miei;

[…]

Il passato è tenuto in sordina e la determinazione del presente: «Oggi», «Or», suona come una esplosione, come un innalzarsi alla vera realtà. Perché la vera realtà che vive il poeta è questa comunione intima con l’ideale da cui tutto il passato è superato eroicamente.

Questo carattere di presente eterno è di tutte le poesie seguenti al Pensiero dominante e si contrappone al mondo dell’idillio, della lontananza, della ricordanza: qui il presente è affrontato, soggiogato dall’ideale, non sfuggito, girato, e ciò avviene perché il poeta si sente eroe, perché la sua personalità anela ad esprimersi nella vita e si sente sicura, convinta, matura per mostrarsi agli uomini. Il contatto con l’ideale è perciò qualcosa di piú di quello che era nella canzone Alla sua donna, che, in fondo, si svolgeva sempre in una atmosfera preidillica e in cui il poeta si rifugiava in un desiderio, in una invocazione sospirosa; qua il contatto è sicuro, l’amore è presente e il poeta può dire: «e ristora i miei sensi il tuo soggiorno», che è un’espressione capitale per l’indole di tutto il canto. «Tuo soggiorno» è spiegabile infatti o come soggiorno di te in me, o come soggiorno di me con te, in te, e poiché il verso precedente diceva «a te ritorno» prevale logicamente la seconda interpretazione. Ma l’espressione conserva la bellissima ambiguità che seguita in tutto il canto: il pensiero d’amore è insieme trascendente e immanente all’anima del poeta e provoca cosí quel duplice, contemporaneo movimento di ascesa e di discesa, di aspirazione e di possesso, di desiderio e di sicurezza che supera il solito platonismo in una maggiore intimità e concretezza.

Data questa situazioni purissima, la forma di questa poesia rifugge completamente dalla ricerca di originalità esterna dal particolare fine a se stesso, dalla rappresentazione colorita, dall’armonizzazione del poeta con il paesaggio, con la natura mediante i paragoni, le similitudini. La personalità purificata, eroica si mostra senza bisogno di appoggi, di costruzioni, di situazioni esterne, di spunti; si sforza interamente nell’affermarsi, nell’innalzarsi al di sopra di ogni bassezza, di ogni meschinità. Poiché è convinta della propria grandezza, del proprio essere al centro della vita e dello spirito, della universalità e singolarità insieme della propria condizione («il suo poter fra noi chi non sentí?» E poi sotto: «sott’altra luce che l’usata errando») il poeta non tergiversa, non esita a mostrarsi nella sua interezza. Non bestemmia, non fa gesti magnanimi come nelle prime canzoni, non irride con ironia sottile e sconsolata, presaga della propria inutilità, come nelle Operette morali, ma afferma, ma abbatte, prova odio e amore con uguale vigoria, con tenacia, non ammettendo vie di mezzo e compromessi: costruisce insomma un nuovo modo poetico in cui la sua personalità è la protagonista assoluta.

Quanto allo scarso valore dei particolari descrittivi, basterà osservare che pochissime volte il poeta in questo canto (come negli altri canti successivi) ricorre all’immagine d’appoggio, al paragone che viene semmai asservito al motivo principale, all’affermazione di sé e del proprio pensiero d’amore. Il termine di similitudine è in questi canti scarnito, lontanissimo dall’importanza che aveva, ad esempio, nel Sabato del villaggio, dove assumeva il comando di tutto il componimento: qui perde autonomia fantastica ed è un accenno assorbito dalla preponderanza del motivo principale. Non che sia inutile o del tutto insignificante, ma è steso brevemente, alla brava, quasi che il poeta lo senta come accessorio da non illuminare particolarmente. Cosí quando esce nel paragone dei versi 16-18 la rapidità con cui dileguano gli altri pensieri di fronte al pensiero dominante è piú espressa dal suono del 18 stesso che non dal paragone: «al par del lampo». E piú di sotto ai versi seguenti:

[...] Siccome torre

in solitario campo

tu stai, solo, gigante, in mezzo a lei.

l’immagine della torre piantata in un campo deserto, non suggerisce nessuna impressione notevole e semmai acquista forza proprio dal verso successivo, tanto piú ricco e tanto piú efficace nell’esprimere la solidità, la staticità potente del pensiero d’amore nella mente del poeta. E la stanza quinta, che si inizia con un paragone regolare («Come [...] cosí») è tutta viva in merito della seconda parte del paragone che si eleva di scatto: «Tal io dal secco ed aspro / mondano conversar vogliosamente [...]».

Inoltre in queste poche immagini le parole sono sí elette, testimonianti il finissimo gusto della nuova poesia, ma il complesso resta al di sotto, piú opaco della parte principale di scarsa efficacia artistica: «che tra le sabbie e tra il vipereo morso».

Insomma l’interesse del poeta non va piú alle immagini, a ciò che può riattaccarlo al lato piú sensuale e vistoso della vita, ma si rivolge a ciò che riguarda direttamente i suoi piú profondi bisogni.

Anche le enumerazioni vivono solo in funzione del motivo principale, come alla stanza nona in cui:

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

studio d’onor, di regno

hanno ragion d’essere solo per la fortissima e contrastante conclusione:

Che sono altro che voglie

al paragon di lui.

Sembra che il Leopardi abbia donato tutte quelle parole in un insieme che intitola, degradandolo, «voglie» e getta cosí numeroso e vario ai piedi dell’unico, dell’amore che vien nominato, per una specie di teologia negativa, con il pronome piú assoluto e religioso: «lui».

Un’altra caratteristica del Pensiero dominante è poi conseguentemente il disprezzo di ogni singolarità esterna che distragga dalla pura atmosfera lirica, dalla espressione del piú profondo animo del poeta. Lo schema del canto è semplicissimo, le varie strofe atteggiano variamente la potenza e la dolcezza del pensiero d’amore nell’animo del Leopardi e nel contenuto bruto del componimento si può dir che non ci sia nulla di nuovo, di originale.

Tutto si può ritrovare piú o meno nella topica amorosa piú generale ed universale, sí che il Pensiero dominante potrebbe essere preso come esatto opposto del secentismo, del concettismo. Qui vale il vigore di assoluta esclusività con cui quei luoghi comuni della tradizione amorosa platonica sono rivissuti e trasformati. Il Pensiero dominante deve essere cosí considerato come espressione di una continua impetuosità che si accentua in moti affermativi, in finali erompenti a contrasto eroico

(Di questa età superba,

che di vote speranze si nutrica,

vaga di ciance, e di virtú nemica;

stolta, che l’util chiede,

e inutile la vita

quindi piú sempre divenir non vede;

maggior mi sento. A scherno

ho gli umani giudizi; e il vario volgo

a bei pensieri infesto,

e degno tuo disprezzator, calpesto.)

nelle bellissime mosse iniziali delle numerose stanze, che in vario modo esprimono sempre la meraviglia, l’ineffabilità dell’amore, l’aderenza del poeta all’ideale: sono mosse differentissime, piú vivaci («per cor le gioie tue, dolce pensiero...»), piú solenni («pregio non ha, ma non ha ragion la vita...»), ma tutte unite dallo stesso accento vigoroso che non permette mai un moto languido, un adagiarsi cantato.

Questo accento sí crea parole potenti, giri di frase insolitamente energici: «sprona» (v. 11), «vogliosamente» (v. 34), «m’affiso» (v. 52), «punge» (v. 56, significativissimo per l’acuita sensibilità morale del Leopardi), «vitale» (v. 118: «tu solo vitale ai giorni miei», che non credo mai usato in tale costruzione), «prendesti a far dimora» (v. 15, che è assai piú di un semplice dimorare o incominciare a dimorare) ecc. Taglia sempre nettamente, divide il puro dall’impuro con gesti violenti: cosí il pensiero d’amore viene fortemente distinto da tutto il resto e perciò il poeta gli si rivolge sempre con l’immediato ed intimo «tu», e lo chiama ripetutamente «lui», quell’«uno», e lo fa unico proprietario dell’aggettivo «solo», usato moltissime volte in questo canto: «tu stai solo, gigante in mezzo a lei», «Che divenute son fuor di te / tutte l’opre terrene», «Sola discolpa al fato [...] solo per cui talvolta [...]», «E tu per certo, o mio pensier, tu solo [...]». E poi «Tu sola fonte / D’ogni altra leggiadria / Sola vera beltà parmi che sia» dice della donna amata che identifica nella sua commossa adorazione collo stesso pensiero d’amore.

Per mostrare ancora di piú come tutto sia trasformato dal nuovo accento, si può far notare, ad esempio, che le ripetizioni di interi schemi di versi o di semplici indizi, mentre negli idilli provocavano il canto, il nostalgico sospiroso

(Piú felice sarei, dolce mia greggia;

piú felice sarei candida luna.

Se a feste anco talvolta

se a radunanze io movo, infra me stesso

dico: O Nerina, a radunanze, a feste

tu non ti acconci piú, tu piú non movi.

Se torna maggio e ramoscelli e fiori

van recando gli amanti alle fanciulle,

dico: Nerina mia, per te non torna

primavera giammai, non torna amore...)

nei nuovi canti accentuano l’impeto, lo slancio:

Di sua natura arcana

chi non favella? il suo poter fra noi

chi non sentí?

Cresce quel gran diletto,

cresce quel gran delirio ond’io respiro.

[...] Or punge ogni atto indegno

subito i sensi miei,

move l’alma ogni esempio

dell’umana viltà subito a sdegno.

Cosí pure, se nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia ci sono dei distici riflessivi

(Vergine luna, tale

è la vita mortale.

[...]

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.)

che sembrano simili a quelli che troviamo nel Pensiero dominante e in Amore e morte

(Tali son, credo, i sogni

degli immortali. [...]

Tanto alla morte inclina

d’amor la disciplina.)

pure una differenza essenziale corre tra i due procedimenti stilistici: i primi sono soprattutto fiabeschi, vocativi, cantati, i secondi hanno un netto valore di nuovo indirizzo di pensieri poetici.

Insomma tutte queste osservazioni, alle quali se ne potrebbero aggiungere molte altre piú particolari, ci mostrano la coerenza del nuovo linguaggio e della nuova forma con l’accento personale, cui esse ci riportano sempre come al carattere essenziale che spiega tutti gli altri speciali caratteri della nuova poesia.

Amore e morte

Amore e morte fu composto dopo un intervallo di quasi un anno, quando lo stato d’animo del poeta era notevolmente cambiato, ma il motivo essenziale della sua personalità era rimasto sostanzialmente intatto: uguale calore spirituale nell’affermarsi e nel sentirsi acceso di entusiasmo per le cose nobili, generose. Ma proprio l’impeto verso l’amore, che doveva aumentare straordinariamente la sua tensione di spirito, gli faceva sentire con piú violenza il desiderio di uscire dalle bassezze della vita, non evitandole, ma superandole nell’assoluto della morte. Prima sapeva consolarsi idillicamente col ricordo delle dolci illusioni, ora che è passato al momento positivo, alla lotta con il presente, non vede possibilità di vita vera che nell’amore o nella morte: due assoluti. Il primo, che ha trovato la sua espressione piú pura nel Pensiero dominante, comincia a sembrargli una domanda senza risposta, un eroismo bello, ma non decisivo, il secondo cresce tanto piú nella sua scala di valori per la salvezza inoppugnabile che gli mostra. In questo momento la morte è davvero un atto di vita ed egli l’adora con la stessa intensità con la quale aveva adorato il pensiero d’amore.

L’abbozzo dell’inno Ad Arimane e la fine del Tristano allargano e chiariscono il motivo di amore e morte come motivo dominante in quel momento della vita del Leopardi: cosí la sua nuova ampiezza spirituale ha trasformato anche il desiderio della morte da un gesto melodrammatico ad una richiesta di vita, d’assoluto impetuosamente romantico ma non voluttuosa, nirvanica nel romanticismo wagneriano. È una preghiera virile, un volersi sentire spezzare, un voler soccombere vittorioso, sempre insomma un’affermazione vigorosa della propria personalità. Questo carattere di preghiera d’uomo non depresso, non rinunciante alla vita, ma anzi di uomo che è conscio come non mai della propria grandezza e della propria compattezza morale, forma il motivo animatore di tutto il canto, che diventa davvero grande, quando, lasciato il primo spunto di amore e morte, il poeta si rivolge direttamente alla morte e l’invoca con una calda intimità, pari in pienezza a quella con cui aveva invocato l’amore.

La forma di questo canto è fondamentale la stessa di quella del Pensiero dominante anche se presenta una vistosa differenza nella sua struttura: quattro stanze dovute a un fare piú largo di quello del Pensiero dominante, che costruisce le sue quattordici stanze quasi uguali raggi concentrici. Ma quello che conta in tutte queste poesie è l’accento soggettivissimo ed energico che è insofferente di ogni indugio e di ogni appoggio esterno e che si mostra tanto piú puro e tanto piú esteticamente positivo quanto piú direttamente anima la poesia. Quindi dove il poeta tergiversa, esita ad esprimere questo suo purissimo contenuto di affermazione eroica e religiosa insieme, la forma è piú fiacca, meno sostenuta e si regge solo in grazia del finissimo gusto del nuovo Leopardi, come riscontreremo in poesie mancate come Consalvo e riscontriamo adesso in parti di Amore e morte: naturalmente in Amore e morte un certo afflato continuo tiene tutta la poesia in un livello sempre superbo ed elevato, ma ciò non impedisce di notare in essa dei forti squilibri di intensità poetica. Ed è logico: essendo questa forma caratteristicamente personale, aderente al nuovo vigore nucleare del poeta, essa cede, si svuota dove l’intensità eroica, in cui consiste l’ispirazione dei nuovi canti, manca.

Noteremo anzitutto come la costruzione stessa di Amore e morte sia già di per sé piú falsa, meno sicura ed unitaria di quella del Pensiero dominante, in cui tutto convergeva all’affermazione della profonda mente dominata dal pensiero d’amore. Qua invece v’è maggiore dispersione a causa dello spunto iniziale, le cui spiegazioni ed esemplificazioni si trascinano per troppa parte del canto.

L’inizio è certo un’altra delle cose realizzate perfettamente nei nuovi canti, una frase nitida, contenuta mediante la massima chiarezza metrica in due membri di simmetria a specchio, in una discesa ed ascesa da endecasillabo a settenario, da settenario a endecasillabo, ma c’è già insito un tono meno perentorio, un passo piú danzante che si infiacchisce man mano che ci si allontana dall’inizio.

Non mancano nelle prime tre stanze degli accenti che svelino la vera indole della nuova poesia, non mancano le solite mosse energiche, rafforzative, ma in complesso l’impressione è piú blanda, diversa da quella che desta tutto il Pensiero dominante e l’ultima strofa del canto in esame. Negli inizi il motivo è piú puro, la sua enunciazione vigorosa

(Quando novellamente

nasce nel cor profondo

un amoroso affetto [...]

Poi, quando tutto avvolge

la formidabil possa

e fulmina nel cor l’invitta cura [...]

poi è svolto piú fiaccamente, e si intorbida fino a ripieghi di forza e terribilità tutta esterna, vuota della vera partecipazione del poeta:

[...] brama quiete,

brama raccorsi in porto

dinanzi al fier disio,

che già rugghiando, intorno intorno oscura.

Anche le esemplificazioni degli effetti d’amore nei cuori ingenui e rozzi, si mostrano poco vive e poco ispirate, poiché interessano meno il poeta, il quale se ne serve rapidamente come di contrasto al risalto che dà alle espressioni piú intime e piú profonde.

Insomma la posizione del poeta in queste prime strofe era meno appassionata e il motivo di amore e morte, che in quell’anno lo aveva tanto occupato, era però sempre piú una trovata che non una reale meta del suo animo, come prima l’amore e adesso la morte.

Quindi le prime strofe, che sono d’altra parte indice dello squisito gusto della nuova poesia, restano un po’ abbassate di fronte al rilievo che acquista l’ultima.

Fin qui il poeta aveva svolto un motivo fecondo di sviluppi, ma cui non portava l’interesse di tutta la sua anima; aveva perciò tenuto un andamento piú da danza, quasi fiabesco, realizzato ottimamente in certi punti mediante suoni leggeri («sorvolano insiem») e mediante quella tinta giovanile, greca in cui anche la morte, tradizionalmente spettrale e paurosa, rientra, per l’identità d’appellativo (fanciulla, fanciullo) che la attira nell’orbita di amore-Cupido.

Ora invece, nell’ultima strofa, il poeta entra a contatto con ciò che piú l’interessa e l’appassiona: non son piú le somiglianze dei due fratelli, ma è la morte, l’assoluta realtà cui anela come aveva anelato, nel Pensiero dominante, all’amore.

Le prime tre strofe si chiudono con due versi ironici, eleganti (soprattutto per la formula «il ciel consenta», adoperata di solito in espressioni auliche di augurio) che fanno sentire ancor piú lo stacco con l’ultima strofa in cui ogni parallelismo, ogni particolare d’illustrazione (la donzella, il villanello) sono messi da parte e il problema vitale del poeta viene affrontato senz’altro.

Già nei tre aggettivi iniziali

(Ai fervidi, ai felici

agli animosi ingegni [...]

sorge il contrasto con il mondo sciocco, ma essi servono soprattutto di passaggio all’invocazione della morte che solamente adesso viene isolata dall’amore e sentita come l’unica, la cosa adorata sopra ogni altra.

Fin qui, nel rivolgersi ad amore e morte accoppiati, il poeta si era mantenuto piú in un tono leggendario, elegante

(dolci signori, amici

all’umana famiglia);

ora, rivolgendosi alla morte, l’invocazione è ardente, tesa, incurante di ogni altra preoccupazione sentimentale. La morte sentita come persona è il termine simmetrico di Aspasia: «bella morte» ha lo stesso valore assoluto di «angelica beltade», e nell’adorazione della donna amata come nell’invocazione della morte c’è lo stesso valore positivo di una personalità tenace, superiore, avvezza ormai a vivere di cose eterne, fuori del contingente e dell’autobiografico. Riabbondano i «solo», «sola», destinati a rendere sempre piú unica la morte come prima la donna amata, i «tu» appassionati, le frasi adorative e le proteste di fedeltà integrate con un rapido accenno al disprezzo per il volgo:

E tu, cui già dal cominciar degli anni,

sempre onorata invoco, [...]

Se celebrata mai

fosti da me, s’al tuo divino stato

l’onte del volgo ingrato

ricompensar tentai, [...]

Il tono adorativo di questi versi esprime già l’intima forza del nuovo Leopardi (implorazione di chi si sa degno d’essere ascoltato), ma è soprattutto l’ultima parte, dal verso 108 alla fine, che mostra completamente la vera qualità della nuova poesia. Quest’ultima parte è tutto un impeto lanciato irresistibilmente, un finale potentissimo che non ammette piú compromessi di descrizioni e di paragoni e risolve tutto nella espressione fremente di una personalità che si afferma e si realizza nell’estrema certezza della morte. In posizione di rilievo è proprio l’io del poeta, con la sua coerenza tenace e ribelle di «frangar non flectar», che si esprime, dopo la determinazione «qual si sia l’ora», adoperata ad allargare il ritmo e ad accrescere l’indipendenza dello scatto successivo, nello slancio dei versi 110-111:

Erta la fronte, armato,

e renitente al fato, [...]

La sintassi, in questo periodo, sembra travolta e gli infiniti che seguono, dipendono dal «me certo troverai» iniziale piú per intimo legame poetico che non grammaticalmente. Il «me certo troverai» campeggia su tutto lo slancio, aiutato anche dalla bellissima agitazione di cupa violenza inquisitoriale dei versi 112-113, ed è ripreso dal forte «gittar da me» che serra gli altri infiniti e prepara l’ultima frase caldissima, di intensa passione:

[...] null’altro in alcun tempo

sperar, se non te sola;

[...]

Insomma quello che spicca in quest’esame di Amore e morte è lo squilibrio fra una parte di espressioni piú personali e poetiche ed una di descrizione abile, ma non sorretta dal vero afflato interiore. Perciò un ondeggiare, specialmente nelle due strofe centrali fra mosse vive e travolgenti, e momenti piú deboli e trascinati appunto dalla forza dei momenti felici; e uno squilibrio ben chiaro fra tutta la prima parte di ispirazione meno intensa e meno personale e l’ultima, in cui ritroviamo la nuova forma concreta e perfetta. E ciò riconduce alla tesi: dove la forma non è espressione diretta della nuova personalità del poeta, e si attarda in momenti piú blandi, essa dimostra solo un ottimo gusto, ma non la presenza di grande poesia.

A se stesso

A concludere un altro lungo intervallo di tempo, riempito dai biglietti disperati e appassionati, diretti al Ranieri, viene la singolare novità dell’A se stesso.

Questa brevissima poesia fu composta in un momento che è designato di solito come ultima delusione del poeta, e cioè alla fine dell’amore per la Targioni Tozzetti, ma lo spunto autobiografico anche qui va preso con molta discrezione e si deve soprattutto notare che il calore vitale, la pienezza spirituale che circola nei canti precedenti, non son per nulla qui raffreddati, inariditi, sí che l’A se stesso si riduca all’espressione di una disperazione ragionante, di un lucido nihilismo senza possibilità di vigore poetico. Invece in questo nuovo momento della sua vita, il Leopardi diventa ancor piú positivo, piú carico di forza espansiva, di certezza, di convinzione profonda della propria grandezza morale. Quanto piú vive, tanto piú sente la necessità dell’atteggiamento forte e virile; quanto piú comprende la forza del fato, la bruttezza della vita, tanto piú si convince di dover mantenersi sempre armato per la lotta inevitabile. Perciò l’A se stesso non è un adagiarsi nella disperazione, un ritirarsi dalla vita, un testamento, ma anzi un atto di vita, un gesto profondo di accettazione cosciente e sprezzante del presente; un passo nel pessimismo piú nobile e costruttivo, non un ritorno, una ricaduta. A se stesso è dunque sullo stesso piano del Pensiero dominante, di Amore e morte, e la sua forma è sempre l’espressione della personalità potente del nuovo Leopardi: il poeta non piange, non si consola idillicamente, salvandosi nel passato o armonizzandosi con la natura, ma affronta virilmente il presente quale gli si presenta.

È al solito purissima lirica senza scene, senza apparato esterno, senza parentesi, cosí che il motivo psicologico della fine dell’amore

([...] Perí l’inganno estremo,

Ch’eterno io mi credei. [...])

mentre mette in sicura evidenza l’io del poeta, è cosí scevro di particolari che sembra il racconto di una sventura universale. Il disprezzo già notato per l’ornatus, per il quadro, per il paragone vistoso si è qui intensificato e si è accordato con una compendiosità, con una concentrazione mai ottenuta con tanta violenza dal Leopardi. Le brevissime frasi non sono rapprese, raggelate, scarnificate, ma sono fortissimi slanci contenuti, carichi di vigore ed unificati sempre dall’unità dell’accento personale. E non sono frasi appoggiate una presso l’altra e costituenti una serie di momenti paralleli, ma è una linea unica che si è atteggiata cosí arditamente romantica, rivoluzionaria, una linea che gode delle continue fermate, dei silenzi, della potenza di una parola isolata, bloccata a meditare se stessa: «Perí».

Il ritmo nettamente ascendente in tutti i membri, indica la natura non statica, ma di movimento contenuto di tutto il canto e le spezzature che non lasciano intatto quasi nessun verso (per esempio al v. 10 l’«e» congiuntiva è piú che altro una pausa dopo il punto e virgola) sono slanciate da alcuni poderosi enjambements tra cui spicca il larghissimo: «assai palpitasti». Sembra insomma che il poeta voglia colmare gli spazi fra verso e verso e formare dei versi ideali oltre la misura reale dei settenari e degli endecasillabi. Versi ideali che sono uniti dall’anima unica della nuova poesia: l’inizio è cosí una densa esortazione al proprio cuore che sembra la conclusione di precedenti, interni ragionamenti a causa dell’«Or» iniziale posto come una pietra su cui si appoggia tutto il canto, come il punto di partenza di una semiretta: da ora in poi sempre.

La seconda unità enuncia l’acquistato senso della realtà e la terza, una sola parola, l’accentua potentemente. La quarta unità, iniziata con una nobile affettuosità («ben sento, in noi di cari inganni») si chiude con l’affermazione dello stato presente del poeta («non che la speme [...]») e la quinta («Posa per sempre»), riprendendo il verso d’inizio, conclude tutta la prima parte con un irremovibile passaggio dal consiglio al comando.

«Assai palpitasti» segna il passaggio alle considerazioni sulla realtà e intona una serie di memoretti assoluti, non rappresentativi, ma affermativi

([...] Non val cosa nessuna

i moti tuoi, né di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.)

Il tono perentorio, di banditore della verità continua negli ultimi versi che tornano piú direttamente al colloquio del poeta col suo cuore

(T’acqueta omai. Dispera

l’ultima volta. [...])

e si mantiene anche nell’ultimo membro che sembra sfuggire alla linea fratta, pausata del canto: in verità anche in quest’ultimo membro il procedimento non cambia; le parole sono successive, staccate: te, la natura, il brutto poter e l’ultimo verso è un crescendo di parole senza remissione: infinita, vanità, tutto. C’è insomma in tutto il canto un calore, un impeto che si esprimono anche qui per mezzo di un linguaggio robustissimo, con forti posizioni di parole: cosí ai versi 7-9 la posizione di «nessuna» dopo «cosa», in fine di verso, è una negazione assoluta, e la contrapposizione duplice di «moti del cor», «sospiri» espressioni di nobiltà sentimentale, a «cosa», a «terra», materializzata natura, esprimono quella negazione dell’altro da sé e quell’affermazione di se stesso che sono caratteristica del nuovo periodo.

Nell’A se stesso si trova dunque confermata la tesi di una forma personale, di un accento personale cui bisogna ricondurre i vari particolari: visto in questa luce speciale, il canto, che sembra raggiungere la prosa, l’abbozzo, tocca invece la liricità piú vibrante.

Aspasia

La situazione del poeta in questo canto è certamente diversa da quella in cui sorsero Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, ma in sostanza anche qui non si tratta di una vendetta contro la bella Fanny o di una giustificazione di fronte agli altri dei suoi vaneggiamenti d’amore, quanto sempre dell’affermazione della propria personalità e delle proprie convinzioni sopra ogni contingente avvenimento autobiografico: si tratta della chiarificazione intima di un problema vitale, della separazione risoluta, combattiva di ideale e reale, della donna e dell’amore, della conclusione del platonismo calato nella realtà.

Poiché la donna l’ha respinto, o poiché egli si è accorto della sua inferiorità al divino modello, il poeta non disconosce perciò la natura sublime dell’amore, la necessità intima di quell’esperienza, ma anzi l’afferma piú violentemente, la scevra con piú rigore da qualunque mistione e separa la donna, che è ora solo una femmina, dall’ideale, per salvarlo e affermarsi sempre piú alto, superiore ad ogni illusione. La forza di questo canto è appunto nella posizione energica del Leopardi, nello stacco fra il reale e l’ideale, fatto con mosse decise, con tagli netti, quasi brutali. È insieme nel coraggio di aver affrontato la parte piú realistica ed umiliante del suo amore per superarla e disprezzarla, per sentirsi sempre piú puro ed esemplare. Nell’A se stesso si era fermato in un disprezzo totale, senza eccezioni, qua invece contrappone il se stesso presente al se stesso passato come un acquisto di interiore saldezza e mostra di avere sempre piú coscienza di agire secondo una legge universale, secondo una morale eroica che prelude al mondo della Ginestra e dice: conoscere il vero, non fuggirlo, non velarlo e viverlo con l’aspirazione ad un nuovo mondo di dignità e virilità.

In questo canto Leopardi non fa misteri, riprende in pieno Aspasia e le sue seduzioni che lo sconvolsero passionalmente e le dipinge nella loro sensualità potente, non rifugge dal narrare il primo incontro e poi il processo del suo rinsavimento: perciò il canto è tanto lontano dalla religiosa, estasiata adorazione del Pensiero dominante e va considerato appunto come espressione di un momento piú realistico, ma non piú fiacco, ma non fuori dalla linea della nuova poesia leopardiana.

Tutto il canto è sempre accentrato intorno al senso vigoroso del presente, della personalità sempre piú certa di se stessa, e la maggior parte del canto è impiegata appunto a distinguere la donna dall’immagine ideale, e non con sottili ragionamenti, ma con energiche esclusioni, contrapposizioni violente. La vera anima dell’Aspasia è perciò sempre l’accento personale, di contrasto virile con cui il poeta si esprime. È significativo in proposito fare un confronto dell’Aspasia con la Libertà del Metastasio, che tratta un soggetto simile. Si capirà allora meglio l’energia morale del Leopardi e come la sua nuova poesia proprio in quella vigoria trovi la sua saldezza, la sua anima: il Metastasio pensa all’ambiente di salotto in cui ritroverà la bella non piú amata e si bea al pensiero di potersi far vedere indifferente, sereno; il Leopardi invece sente il bisogno di salvare la piú grande passione della sua vita, di sapersi sempre piú vicino al proprio ideale e di sprezzare, nella coscienza della propria superiorità, tutto l’altro da sé. Per il Metastasio non è altro che una liberazione, per il Leopardi è una nuova affermazione di vita, un altro passo nella via della piú completa unità spirituale.

C’è di particolare nell’Aspasia un realismo insolito nel nuovo Leopardi che abbiamo detto alieno dalle descrizioni delle rappresentazioni, da tutto ciò che ritardi l’espressione del suo io piú profondo. Ma nell’Aspasia questo realismo ha una sua ragion d’essere che consiste appunto nel bisogno di superare il passato riprospettandoselo come presente, rivivendolo nella sua minuta costruzione, nella sua organicità. Solo riprendendo la bellezza di Aspasia, la realtà piú esterna del suo amore, il poeta potrà poi separare dal pretesto, che è ora il cadavere, l’ideale cui serba ancor fede. Egli ha bisogno di chiarire la propria passione nel suo aspetto piú umano per sentirsene poi veramente liberato, ingrandito: deve dire cosa fu per lui la donna, cosa è ora. Il risalto naturalmente è dato al presente che è soprattutto un presente morale, una realtà ideale e perciò eterna. Senza arrivare ad inutili freudismi, mi sembra davvero che il poeta abbia avuto bisogno per liberarsi del peso morto di Aspasia, di fare riaffiorare con intensità di presente il ricordo del primo incontro: nel primo incontro avvenne l’inganno ed è riportandosi ad esso che meglio si potrà scevrare l’ideale dal reale. Cosí il realismo della prima stanza serve a far risaltare il nuovo stato del poeta, il nuovo gradino della sua ascesa spirituale e si può riconoscere che nell’impressione generale del canto questo realismo non resta a sé, a quadro isolato, ma si fonde benissimo con tutto il resto.

Infatti vi è la stessa forma vigorosa e basta pensare alla violenza con cui è descritta la bellezza di Aspasia per capire come questo realismo non sia opera di un gusto cronistico o fotografico, ma proprio derivi dalla stessa anima energica che sorregge la separazione di una donna e immagine, l’affermazione della superiorità del presente: ché anzi questo realismo nel ricordo può essere preso come significativo punto di paragone tra il nuovo e l’antico Leopardi. Non c’è dunque stacco fra una prima parte descrittiva e una seconda ragionativa: la stessa combattività, la stessa energia animano le due parti, ma certo la forza della poesia si sposta piú verso l’ultima, secondo la natura di questi canti, fatti a crescendo, a finali slanciati. Nella prima stanza il ricordo è suggerito da una sensazione presente, che non ha però lo speciale sapore romito come negli idilli, e che è anzi in carattere col nuovo tipo di realismo sopraccennato: c’è una tinta quasi romanzesca, ottocentesca e c’è un insieme, grazie al valore mnemonico del nome di Aspasia, un’aria di voluttà, di squisitezza. Si forma mediante i vari particolari, un’atmosfera densa, carica, sensuale che è una cosa tutta nuova nella poesia del Leopardi: la creano parole come «accolta», «nitide pelli», «circonfusa d’arcana voluttà» e mosse brevi, elegantissime: «tutti odorati dei novelli fiori / di primavera», «del color vestita della bruna viola», «inchino il fianco sovra nitide pelli». Un progresso di sensualità, di erotismo si sviluppa specialmente nella descrizione del sembiante di Aspasia («niveo collo», «man leggiadrissima», «seno ascoso e desiato») e nei suoi atteggiamenti rispetto ai bambini che sono fatti vivere semplicemente nelle «curve labbra», come in una procacità incestuosa.

Non si tratta dunque tanto di una descrizione d’ambiente, di colore storico, quanto della intensa espressione del lato piú passionale del suo amore: finché ha amato, la donna è stata vista soprattutto come angelica beltade, nella purezza del Pensiero dominante: adesso affiora la bella fiera, la femmina sentita quasi in senso wedekindiano.

Finché il platonismo si è attuato nella realtà, il poeta ha sentito la donna inseparabile dall’ideale, ora che si forma il piú terribile ingorgo di platonismo che si sia avuto nella nostra letteratura, la donna diventa sempre piú bellezza senz’anima: illusione.

La nuova parte della poesia è riattaccata alla prima proprio dall’affacciarsi del platonismo:

[...] Apparve

novo ciel, nova terra, e quasi un raggio

divino al pensier mio. [...]

Raggio divino al mio pensier apparve,

donna, la tua beltà. [...]

Gli accenti si intensificano in questa parte del canto e sotto l’apparente monotonia ragionativa, pulsa qui la piú genuina forza della nuova poesia. Non sono distinzioni logiche, ma contrasti violenti, non è processo di ragionamento, ma un crescendo di impeti poetici. E la voce del poeta risuona piú chiara proprio là dove la contrapposizione è piú violenta:

Or questa egli non già, ma quella, ancora

nei corporali amplessi, inchina ed ama.

[...]

Perch’io te non amai, ma quella Diva

che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Quella adorai gran tempo; [...]

Queste mosse cosí piene, cosí staccate e decisive giustificano anche i momenti meno intensi trascinandoli e servendosene come di pedana di slancio, appunto perché la nuova poesia cerca non armoniche proporzioni, ma impeti e vigore. Tutti i vari particolari di questa poesia ci riconducono perciò alla sua qualità personale, vigorosa: cosí si spiegano le posizioni angolose di certe frasi («Non cape in quelle anguste fronti ugual concetto»), si spiega l’importanza dei versi finali che, dopo un lungo periodo di intensità crescente, affermano con maggiore decisione l’espressione piú intima del momento poetico:

[…] E male

al vivo sfolgorar di quegli sguardi

spera l’uomo ingannato, e mal richiede

sensi profondi, sconosciuti e molto

piú che virili, in chi dell’uomo al tutto

da natura è minor.

Cosí si comprendono le riprese sempre piú impetuose, il crescere dell’impeto oltre il punto finale in frasi successive, come onda che comunichi ad altra onda il proprio moto senza calare e morire definitivamente. Anche il forte linguaggio («altero capo», «indomito mio cor», «me di me privo») è spiegato dall’accento personale che elimina ogni forse, ogni chissà, ogni vago, ogni sfumato.

Insomma anche nell’Aspasia dobbiamo tener presente l’accento della nuova poesia per il quale tutto il canto acquista significato poetico e fuori del quale non può essere che misconosciuto e ridotto a freddo ibridismo di descrittivo e discorsivo.

La ginestra

Nella Ginestra la nuova tendenza ad una forma rivoluzionaria, libera, antidillica, unica espressione di tutte le esigenze estetiche e filosofiche del poeta, raggiunge le sue massime conseguenze. In essa il romanticismo individualista ed umanitario insieme, eroico e religioso del nuovo Leopardi, trova la sua espressione piú spiegata, sí che la Ginestra lungi dal rappresentare uno sconvolgimento rispetto ai nuovi canti, è unita ad essi dallo stesso accento vivificatore.

Bisogna ad ogni modo, per comprendere questa poesia, considerare attentamente l’ultimo atteggiamento della personalità del poeta, bisogna notare come il Leopardi sentisse sempre piú chiara l’esigenza di combattere per il trionfo delle proprie idee. Fin qui aveva tenacemente opposto sé agli altri, ora spiega questa sua posizione, svolge le sue convinzioni, affermandole come mezzo di salvezza per tutti gli uomini. Fin qui si era mostrato unico ed esemplare, ora ha il bisogno di rivolgersi direttamente agli altri uomini per fare trionfare la propria fede. Perciò possiamo chiamare il nuovo momento in cui sorge la Ginestra “evangelico”.

Il Leopardi è ora nel suo momento piú chiaramente costruttivo, nel momento della sua maggiore ampiezza spirituale. Sbaglia quindi chi crede trattarsi di un indebolimento senile, di una pietà languida, di ripiego, perché all’opposto la morale della Ginestra è virile, austera, non di abbandono (come nel Pascoli), e può aver luogo solo in un uomo intimamente sicuro del proprio valore e della propria potenza.

Questa tinta evangelica colpisce fin dal versetto del Vangelo di S. Giovanni, citato a capo della poesia e certamente adottato per riattaccare quasi il proprio messaggio morale a quello della maggiore rivoluzione spirituale avvenuta nella storia.

Nella Ginestra c’è il tono eroico comune a tutti gli altri nuovi canti, ma piú interiorizzato, fatto piú cosciente e non perciò meno vigoroso. Quella personalità virile, che in questi ultimi canti ha affermato se stessa e negato tenacemente i limiti, le bassezze della vita, la prepotenza del fato, sentendosi tutt’una col suo ideale, aspira a chiarirsi, a dirsi il senso della propria unicità per contemporaneamente erigerlo a legge universale, a modello di vita per gli altri uomini. Non che il Leopardi proponga un sistema filosofico ben sviluppato e ragionato, quanto piuttosto una fede, una convinzione umana, un ideale di dignità che può richiamare l’ideale stoico propugnato dallo stesso Leopardi nella prefazione alla sua traduzione del Manuale di Epitteto, ma che supera ogni stoicismo freddo, ragionativo con il calore e l’impeto del suo animo generoso, romantico: un calore romantico che supera anche l’illuminismo contenuto nella stessa Ginestra. In questa infatti quello che vale soprattutto non è il che, il contenuto del messaggio, ma il modo caldo con cui è annunciato, con cui il poeta lo sente costruttivo, unica via di salvezza per gli uomini. La poesia della Ginestra va considerata perciò coerentemente alla situazione nuova, estrema del Leopardi: questo nuovo stato del poeta si esprime in una forma larghissima, libera da ogni tradizione, di ispirazione ampia ed accogliente. Al solito nessuna ricerca dell’armonico idillico, della frase conclusa, ma anzi creazione di lunghissimi periodi coraggiosi, originalissimi, di slanci, di andamenti abbondanti e senza paura di prosa.

La poesia della Ginestra non deve essere quindi misurata con criteri estetizzanti, antologisti, ma deve essere considerata nel suo insieme, nel suo accento speciale, nella sua intima unità. E non perché sia un tentativo che valga solo come intenzione non effettuata, ma proprio perché il poeta l’ha creata con un’ispirazione larga, tenendo conto piú dell’insieme che non dei minuti particolari, volendo farne un’espressione libera di tutto il proprio mondo interiore. Questa larghezza non è una sciatteria, una faciloneria, derivante da mancanza di responsabilità, ma è piuttosto il risultato di tutta una tendenza ad una forma personalissima in cui ogni intima mossa spirituale possa essere accolta senza distinzione preconcetta di poesia e non poesia, di esprimibile logicamente o artisticamente. Del resto in quest’ultimo periodo la sua sicurezza era andata sempre piú rafforzandosi e permetteva un’espressione piú immediata, e non perciò piú superficiale: infatti se le correzioni e le varianti degli altri canti posteriori al Pensiero dominante incluso, ci mancano, della Ginestra invece le abbiamo e sono cosí poche da farci pensare che il Leopardi fosse divenuto tanto padrone del suo stile, di non aver piú bisogno di tutte quelle varianti minute e spesso pedanti che abbondavano nei primi anni della sua produzione artistica.

Per capire poi le differenze fra la Ginestra e le poesie precedenti dello stesso periodo, bisogna tener conto della preparazione della Palinodia, Nuovi credenti e Paralipomeni, che sono quasi i tentativi monchi di fronte alla realizzazione concreta, rappresentata dalla Ginestra.

Resta ad ogni modo fermo che, se per gli altri nuovi canti bisogna rifarsi sempre all’unico accento che li vivifica, qui soprattutto bisogna vedere la poesia nel suo insieme, nella sua larghezza, nel suo tono generale, riconducendo senz’altro tutte le osservazioni particolari di linguaggio e stile all’accento principale che le spiega e giustifica. Solo cosí si può comprendere la Ginestra che diversamente resterà sempre un qualcosa di ibrido di fronte a cui dover ripetere il catulliano, e ormai crociano, «Odi et amo».

Tutto il nostro esame consisterà dunque nel ricondurre rapidamente i particolari al motivo centrale, all’accento di ispirazione personale che è anche sempre, malgrado le apparenze didascaliche, un accento fortemente lirico: il poeta parla infatti agli altri uomini, ma parla di se stesso e insieme a se stesso, poiché ha raggiunto quella profondità spirituale in cui l’io piú personale coincide con l’io piú universale. Ogni riferimento riconduce al Leopardi di cui sono espressione sia la Ginestra, sia l’«uom di povero stato», come tutti gli effetti della malvagia natura si ricollegano alla Natura e al Vesuvio che ne è la piú diretta personificazione. Anche qui insomma un contrasto violento e l’erezione tenace della personalità del poeta.

Nella Ginestra è stata spesso notata una giustapposizione di motivi, di ispirazioni diverse e soprattutto la coesistenza non fusa di idillio e satira, di descrizione e polemica. Queste distinzioni cadono se si tiene conto dell’ispirazione larga di questa poesia, della sua tendenza personale unitaria, in cui ha valore l’accento fondamentale e non il particolare fine a se stesso in cui ciò che contenutisticamente sembra idillio e predicazione è invece radicalmente trasformato, trasvalorato.

Per spiegarci praticamente, osserveremo come nella quarta stanza, in cui il poeta passa dalla contemplazione del firmamento (posizione apparentemente idillica) alla costatazione della pochezza dell’uomo e della sua stolta superbia (motivo polemico, filosofico), non ci sia invece che un unico tono concretato in due slanci ampi, crescenti con lo stesso ritmo e con lo stesso accento.

Nella prima parte della stanza si può ripensare, a causa dell’abitudine pensosa di solitudine contemplativa, all’Infinito, al Canto del pastore, ma in realtà qui non c’è il fare meravigliato e nostalgico degli idilli. Al contrario c’è la sicurezza di chi sa, di chi arriva a quelle considerazioni da un suo punto di vista ben fermato, di chi afferma e insegna: non c’è il pastore con le sue domande blande, sfiduciate, di forse e chissà, ma un uomo che si sprofonda nella contemplazione con un suo passo certo della meta. Qui c’è tutto il nuovo Leopardi che ritiene «superbe fole» ciò che un giorno credeva dolci illusioni e che non sfugge piú il vero, ma anzi se ne fa apostolo, banditore.

Nelle due frasi: quella contemplativa e quella riflessiva, c’è lo stesso andamento, lo stesso disprezzo dell’armonico e del particolare: tutto vive in funzione dell’accento principale, dello slancio ritmico che si serve delle parole soprattutto musicalmente. Nella prima e nella seconda le stesse riprese («E poi che gli occhi [...] a cui non l’uomo pur [...] e quando miro [...]; e rimembrando [...] e poi dall’altra parte [...] e quante volte [...]»), gli stessi ampliamenti verso la fine, lo stesso sboccare, dopo il lungo periodo, in un’interrogazione dello stesso movimento.

Sempre riportandoci all’ispirazione larga, al valore d’insieme di questa poesia, noi possiamo comprendere la presenza delle numerose descrizioni e dei paragoni che negli altri canti dello stesso periodo scarseggiano. Senza andare a pensare ad un assurdo ritorno all’idillio che, come abbiamo già visto è lontanissimo dal tono della Ginestra, si può osservare che i paragoni e le descrizioni sono qui accolti appunto per il fare ampio caratteristico di questa poesia e che essi sono sempre in funzione del motivo principale da cui attingono forza. Nelle descrizioni, fatte senza minuziosa cura e convogliate dalla piena del motivo principale, non vi sono di idillico che alcune parole tradizionali («meschino», «villanello», «ostel villereccio») che nel contesto passano in seconda linea di fronte all’importanza dell’impeto che le trascina.

Cosí la descrizione della discesa della lava non resta staccata, ma col suo crescendo travolgente, in cui i particolari non emergono isolatamente, serve all’impetuosa espressione della terribile opera della natura:

[...] cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante,

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: [...]

L’unità di tono per cui le descrizioni non restano quadri staccati, ma si fondono in tutto il complesso della poesia, è poi chiarissima nella strofa finale, in cui le convinzioni virili del poeta si condensano nella ginestra: ogni intento idillico è qui lontano, ogni particolare descrittivo si assimila al tono dell’affermazione della morale eroica in cui vive la personalità del poeta. La polemica con «il secol superbo e sciocco» e la personificazione della ginestra sono tutt’uno con l’affermazione personale del poeta, fatta in assoluto, con la stessa intensità della fine di Amore e morte, del disprezzo dell’A se stesso, e di Aspasia, dell’adorazione del Pensiero dominante.

L’accento animatore della poesia è piú fiacco nei paragoni che sono fatti con una certa facilità disinvolta e con minore intensità: spesso sono suggeriti da una parola del motivo principale e ne sono diluizione frettolosa, senza rilievo (cosí ai versi 137-144) o servono a preparare lo slancio che interessa al poeta: «come d’arbor cadendo un picciol pomo [...] cosí d’alto piombando» (nel paragone accenna appena la linea che è poi svolta potentemente nella parte principale).

Colpiscono nella Ginestra i periodi lunghissimi, incatenati da numerosi enjambements, sorretti alla fine da frasi incisive ed energiche, secondo quello che avviene anche nelle altre poesie del periodo: ebbene questi periodi articolati, quasi tentacolari, sono richiesti appunto da un bisogno di ampiezza, di espressione non ad aforismi, ad epigramma. Quindi le strofe sono organismi liberissimi, che, senza mirare affatto alla prosa, infrangono qualunque legge costruttiva tradizionale, sostituendole l’intima legge di una linea aderente agli impeti della personalità.

Perciò anche le rime, in tanta larghezza di costruzione, sono usate senza regola fissa, tranne che alla fine delle strofe, dove la loro presenza convalida e serra la separazione dei vari motivi dello svolgimento. Nel corpo della strofa ricorrono spesso cosí lontane da non sembrare quasi rime (vv. 73-78; 75-83 ecc.), a volte hanno un lato valore coesivo, a volte sono aggruppate anche a tre o quattro, insistentissime e addirittura omogenee per calcare su di un movimento musicale (v. 40; e specialmente v. 170 e seguenti).

Cosí pure il grande uso dei settenari predominante sugli endecasillabi, vuol dire che il poeta mira ad organismi snelli, articolati, slanciati, e un altro uso che è da ricollegarsi sempre alla forma ampia della Ginestra, è quello dei numerosi gerundi, che adempiono alla funzione di allargare e pausare lo slancio dei periodi lirici. Similmente gli avverbi servono a dosare e a precisare il movimento delle frasi:

Con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Tutte queste osservazioni minute ci fanno vedere riprovata in atto, appunto, la larghezza di conclusione piú degna di questo periodo “personale” della lirica leopardiana.

In fine credo che da quest’esame della Ginestra risulti chiaramente il carattere personale della nuova poesia, che qui si mostra piú patente come estrema espressione di una spiritualità matura e convinta, ma che è il carattere intimo di tutta la nuova poesia da noi studiata.

In tutte queste poesie, che rispecchiano stati d’animo diversi: adorazione amorosa, invocazione della morte, fine dell’amore, fine del platonismo, annunzio di verità e di legge morale, l’accento fondamentale, lo spirito che possa individuare una forma d’arte da un’altra, è lo stesso e consiste appunto nell’energia con cui la personalità del Leopardi si esprime poeticamente.

È sempre una poesia che affronta il presente e non lo evita come l’idillio, una poesia che vuole essere espressione di vita, non rifugio, evasione. Perciò assume atteggiamenti energici, afferma o nega con la stessa intensità, perciò disprezza il quadretto, il particolare. La sua musicalità è una musicalità speciale, di risolute audacie senza paura di prosa e di durezze.

A questa poesia personale, antiidillica, combattiva il Leopardi arrivò compiutamente solo nei cinque canti da noi esaminati, mentre negli altri dello stesso periodo l’accento della nuova poesia risuonò piú fiaccamente.

Nel capitolo seguente studieremo perciò i nuovi canti minori, considerandoli come momenti di pausa o di preparazione.